- 12/05/2022
Oggi è più che mai presente la necessità di equilibrio tra un mercato del lavoro frenetico, con un aumento delle competenze richieste, e il bisogno di trovare delle soluzioni immediate per le organizzazioni.
La tecnologia, il cui uso è crescente, soprattutto in un ambito delicato come quello dei processi di reskilling e upskilling delle aziende, può essere considerata lo strumento decisivo per questo compito.
La pandemia ha accelerato un’esigenza che i CEO delle aziende, specie quelli che operano nel settore dei servizi finanziari, avvertivano da tempo.
Si evince dalla 25esima edizione di Annual Global CEO Survey 2022 di PwC: il 35% dei leader di aziende intervistati hanno dichiarato che una delle priorità delle loro aziende è focalizzarsi sul miglioramento delle competenze e l’adattabilità ai cambiamenti del mondo del lavoro della propria popolazione aziendale. Per fare un raffronto, l’anno precedente la percentuale era ferma al 17%.
D’altronde, hanno più motivi per essere preoccupati. La sicurezza informatica, per esempio, è un pensiero fisso per oltre il 60% degli oltre 5mila CEO intervistati in più di 100 Paesi (tra cui anche l’Italia). La mancanza di conoscenze basilari su come si propagano le minacce informatiche, aumenta i rischi dell’organizzazione di esporsi ad attacchi.
Inoltre, il 77% dei lavoratori (altro studio PwC su circa 32 mila intervistati nel mondo) si dice pronto ad apprendere nuove skill.
Le minacce esterne, i settori che cambiano rapidamente paradigmi e tecnologie (se ci limitiamo ai servizi finanziari, embedded finance, open banking e l’introduzione massiva dell’intelligenza artificiale) e la volontà dei lavoratori di essere sempre più padroni del proprio destino, spingono le organizzazioni a “puntare tutte le fiches” sul tavolo della formazione.
Introdurla in azienda, tuttavia, è una sfida del tutto diversa rispetto al passato:
«Se facciamo un viaggio nel tempo a venti, trent'anni fa, si poteva lavorare sullo sviluppo delle competenze in azienda in modo più sereno, poiché non c’erano così tanti cambiamenti tecnologici e sociali. Le aziende potevano programmare con più calma il proprio futuro. Oggi, al contrario, si procede di sei mesi in sei mesi», spiega Roberto Pancaldi, Managing Director di Mylia, società di The Adecco Group che si occupa di formazione e sviluppo per individui e aziende.
A lui chiediamo di fare chiarezza su come introdurre processi di reskilling e upskilling in azienda, quali strategie adottare e soprattutto gli errori da non commettere.
A ogni problema il suo algoritmo
Le banche hanno sentito più di altre aziende la necessità di introdurre velocemente processi di reskilling e upskilling. Basti pensare al problema nato dalla grande riduzione degli sportelli bancari.
Per affrontarlo, hanno dovuto offrire nuova formazione ai cassieri della banca, trasmettendo sia competenze utilizzabili nella loro attività quotidiana (upskilling) sia abilità nuove per occupare una posizione diversa (reskilling). Per esempio, alcuni sono stati riconvertiti in consulenti finanziari, specializzati nell’offrire servizi a distanza.
Un articolo di McKinsey riporta alcuni casi studio nel settore bancario. Il risultato? Processi di reskilling e upskilling hanno dimostrato di essere più efficaci del 20% nella relazione tra costi e benefici, rispetto ad assunzioni e licenziamenti.
Tra il dire e il fare ci sono tuttavia di mezzo tante strategie diverse (non esiste una sola verità) che mantengono però delle costanti. Partono tutte, infatti, dalla necessità di attivare processi di assessment delle competenze future in ogni dipartimento. Assessment che sono oggi favoriti dalla tecnologia.
Mylia, per esempio, si serve di due strumenti, entrambi basati su algoritmi di intelligenza artificiale:
«Il primo lavora sul text mining. Analizza scritti di stampo universitario e anche brevetti a livello mondiale, ruolo per ruolo, settore per settore, per dare indicazioni alle aziende sulle possibili evoluzioni di una posizione e sulle competenze necessarie per ricoprirla», spiega Pancaldi.
Un altro algoritmo si concentra invece sulle soft skill. Analizza i comportamenti agiti delle persone e restituisce una mappa articolata che costituisce una foto precisa dell’agito di ogni individuo, anche all’interno di un team di lavoro:
«Abbiamo definito 16 macro-comportamenti e l’analisi ci permette di capire come ciascuno dei comportamenti sia influenzato dagli altri 15. Capire come sono posizionati i membri di un team all’interno di una mappa tridimensionale, aiuta le organizzazioni a comprendere che tipologia di intervento formativo fare e su quali azioni di formazione e sviluppo sia più corretto investire per ottenere risultati concreti», continua Pancaldi.
Come non far spegnere il cervello
L’individuazione delle competenze è solo il primo passo della missione. Per semplificare questa fase, alcune organizzazioni bancarie hanno selezionato alcuni campi nei quali l’azienda sente la necessità di progredire, per esempio customer experience, data fluency leadership e cybersecurity. Preparando, poi, degli interventi formativi su ognuno di questi verticali.
Segue poi la necessità di coinvolgere e responsabilizzare i lavoratori: questa è d’altronde la vera impresa.
Alcune aziende, come alcune compagnie assicurative, hanno puntato molto sull’autodeterminazione dei lavoratori, creando dei servizi di “self service della formazione” con una varietà infinità di corsi (divisi a seconda del dipartimento) lasciando a ognuno la possibilità di scegliere quali e quanti fare e per quante ore, come spiega un articolo di Harvard Business Review.
Questa strada ha il pregio di responsabilizzare fin da subito le persone:
«Nessuno svolge un’attività di formazione solo perché qualcuno gli ha detto di farla. In questo caso, magari va anche in aula, ma disattiva il cervello. In base alla nostra esperienza, la motivazione nasce in due casi: se il lavoratore comprende che l’azienda sta investendo su di lui e se, allo stesso tempo, capisce che è lui il primo a dover investire sulla sua occupabilità. Quando hai creato motivazione puoi poi costruire dei percorsi formativi», suggerisce Pancaldi.
D’altronde, rendere i lavoratori responsabili della manutenzione delle proprie competenze è un tema cruciale perché l’azienda ha oggettive difficoltà nella pianificazione a lungo termine (non solo delle competenze che saranno necessarie, ma proprio nell’interpretare e cavalcare l’evoluzione del business e del mercato). Sempre di più nel lungo periodo è il lavoratore stesso a dover, quindi, presidiare il proprio bagaglio di competenze, la loro manutenzione ed evoluzione, al fine di garantirgli nel tempo l’occupabilità.
Per aiutarlo, ci sono ormai dei validi strumenti di assessment che si basano sul concetto di employability, ne abbiamo parlato qui.
Massimizzare l’intervento formativo
Come abbiamo visto, in primis si rende necessario indentificare le competenze (sia hard che soft). In seconda battuta risulta cruciale la responsabilizzazione e il coinvolgimento dei lavoratori nei processi di upskilling e reskilling. Infine, determinante si rileva la costruzione del pacchetto formativo.
Qui non partiamo da zero. Abbiamo infatti imparato a riconoscere le esigenze dei lavoratori sulle quali bisogna poi costruire il pacchetto formativo:
«Ci sono due sfide. La prima è quella di massimizzare l’intervento formativo, la seconda è di personalizzarlo. I lavoratori devono essere lasciati liberi di capire se approfondire o meno un argomento, rispetto alle loro conoscenze pregresse. E poi devono avere la possibilità di usufruire del percorso formativo su più canali possibili sia fisici (aula) che virtuali (desktop, smartphone ecc.), integrando le metodologie più efficienti per ogni canale individuato e organizzando il tempo della formazione sulla base delle proprie esigenze», evidenzia Pancaldi.
Per questo un moderno percorso formativo deve prevedere fasi e momenti diversi di fruizione, e l’utilizzo di una metodologia blended (aula e distance) permette una migliore organizzazione dell’intervento formativo.
Nella parte distance, infatti, si garantisce a colui che necessita di approfondire concetti poco conosciuti, le risorse didattiche per poterlo fare partendo dai basic.
Ma al contempo garantisce a colui che è in possesso di un elevato livello di competenza di avere solo gli approfondimenti molto specifici.
E questo passaggio sul distance permette di strutturare la fase di aula (fisica o virtuale) come un momento pratico, operativo, strutturato su casi concreti ed in grado di dare un forte valore aggiunto ai partecipanti (e all’azienda committente) in termini di operatività.
D’altro canto, avrebbe poco senso oggi tenere otto ore di lezione su un argomento che vada bene per tutti, indipendentemente dal livello di preparazione. «L’azienda non può permettersi il lusso di avere otto ore di improduttività. La verità qui è che la standardizzazione mal si sposa con la modernità», evidenzia Pancaldi.
Il ROI della formazione
Su come misurare il ROI delle attività di formazione in azienda c’è una vastissima letteratura. Si capisce bene che mentre è semplice valutare i risultati di un addestramento, come per esempio avvitare un bullone in un certo modo, diviene più complicato parametrare l’acquisizione di una soft skill.
Anche qui non c’è un’unica interpretazione possibile. A seconda degli interventi formativi è necessario dunque trovare gli indicatori più adatti. Alcuni esempi che possono risultare validi in contesti diversi sono la riduzione dell’assenteismo, delle malattie sul lavoro, la riduzione dello stress, l’abbassamento del turnover. O altri indicatori più familiari, come il fatturato o l’efficienza del processo di vendita:
«Se un’azienda continua ad operare senza perdere quote di mercato, e anzi tende a conquistarle grazie all’introduzione di innovazioni, questo è già di per sé un buon indicatore sull’efficacia degli investimenti e degli sforzi in materia di formazione», svela Pancaldi.
I rischi di un approccio consumistico
I processi di upskilling e reskilling non vanno costruiti e promossi dai leader delle organizzazioni come se fossero dei benefit. L’azienda deve invece investire nella creazione di una cultura, trasformarsi cioè in una learning organization:
«È sicuramente rischioso per le finanze dell’azienda realizzare un intervento formativo occasionale, poiché trasmetterebbe il messaggio al lavoratore che in fondo non serva e rappresenti solo una moda passeggera. Una learning organization invece sa riconoscere e valutare le competenze della propria popolazione aziendale, motivandole non solo a migliorarle, ma anche a metterle in circolo e condividerle. Solo così è possibile raggiungere un impatto reale sulla cultura dell’organizzazione», conclude Pancaldi.