- 07/07/2022
Qualsiasi imprenditore - o meglio, qualsiasi “startupper” - quando pianifica la nascita e la crescita del proprio business, dovrà a un certo punto ragionare anche sulla sua espansione internazionale.
Spesso concentrarsi solo sulla crescita nel proprio mercato di appartenenza è un approccio troppo limitato: prima o poi, dopo i primi mesi o anni, per continuare a crescere bisognerà valutare l’ingresso in nuovi mercati.
Quindi, l’espansione internazionale dovrebbe essere nell’agenda di tutti gli imprenditori fin dalle prime fasi di definizione della propria strategia di go-to-market e di definizione del prodotto.
Senza cadere in luoghi comuni, non c’è dubbio che fenomeni come la globalizzazione, internet, i social network e l'e-commerce, abbiano tutti contribuito a creare un ambiente favorevole all’internazionalizzazione di business digitali, senza che le differenze tra i singoli mercati nazionali ponessero degli ostacoli insormontabili.
In generale, ciò che ha funzionato in Francia, funziona anche in Germania ed Italia. Quello che serve è adeguarsi in modo formale alle normative locali e tradurre tutto nella lingua del nuovo paese.
Ma quando ci si trova a fondare una startup fintech, è davvero così?
Sono numerosissimi i casi di fintech che pianificano la propria internazionalizzazione basandosi sull’esperienza di aziende scalate sì a livello europeo, ma operanti in settori diversi.
Purtroppo questo approccio è spesso sbagliato, in quanto se in apparenza i clienti nei diversi mercati hanno esigenze omogenee, le modalità di offerta del servizio possono essere drasticamente differenti, così come le normative a cui adeguarsi.
Partiamo proprio da quest’ultima, la normativa. Semplificando all’estremo, l’ambiente regolamentare europeo in materia di fintech è ancora molto frammentato.
Bisogna riconoscere che ogni paese ha la propria autorità di vigilanza (ad esempio, Consob e Banca d’Italia nel nostro paese), autorità che ha il compito di recepire le direttive Europee e di metterle in atto localmente, secondo ciò che ritiene più giusto.
L’interpretazione del regolamento locale non va considerato solo in termini “formali”, ma soprattutto pratici: non intendo parlare di licenze, che sono necessarie, ma di impatto del regolamento sull’effettiva compliance di prodotto, dei processi interni e della user experience per un passaggio cruciale, come l’onboarding di nuovi clienti.
Questo elemento è sempre il più complesso, poiché traslare i requisiti di un regolamento locale in una tecnologia che possa scalare velocemente a livello internazionale è molto difficile, e porta con sé rischi che spesso si scoprono soltanto strada facendo.
Si pensi, per esempio, al codice fiscale, presente solo in Italia ma necessario nei processi di KYC, alla PEC, allo SPID, etc…
Nel processo di internazionalizzazione di una startup fintech bisogna quindi sempre considerare risorse sufficienti a sostenere l’evoluzione del prodotto, in modo coerente con quanto richiesto dalla normativa locale, non solo come budget di marketing, ma soprattutto in termini di sforzo necessario per lo sviluppo e l’adattamento del prodotto, che talvolta può portare anche alla necessità di integrazione con nuovi partner locali.
Quindi a tempi di negoziazione contrattuali, ritardi e costi inattesi.
Mercati diversi, strategie diverse
In secondo luogo, un altro errore comunemente commesso dai founder di aziende fintech è pensare che la stessa strategia di acquisizione clienti funzioni in ogni mercato in cui si opera. Questo ragionamento può essere più realistico in ambiente B2C, lo è sempre meno nel caso di realtà operanti nel B2B.
Il B2B è un ambiente estremamente ancorato alle abitudini locali in tema di amministrazione, processi manageriali, governance aziendale e cultura nazionale. Una strategia di marketing e di vendita efficace nel mercato di partenza, non necessariamente lo sarà anche in un paese diverso.
Prendiamo il caso di prodotti finanziari: guardando a un’inchiesta del Corriere del 2020 sul livello di educazione finanziaria a livello globale, si nota subito come i paesi del Nord-Europa siano quelli che mostrano un livello particolarmente più alto rispetto alla media, con l’Italia invece a un livello più basso.
Questo comporterà, quindi, che il volume di mercato aggredibile in un specifico mercato potrà variare di molto rispetto alla complessità del prodotto offerto e alla capacità dei potenziali clienti di comprenderne i benefici.
Questo elemento deve quindi necessariamente portare i founder a porsi la domanda: i canali di vendita e la comunicazione attuale sono adatti al nuovo mercato in cui sto espandendo la mia azienda?
Nella definizione del budget di internazionalizzazione, sarà quindi necessario sfidare le proprie certezze strategiche rispetto a ciò che ha funzionato nel mercato di appartenenza, inserendo un budget di sperimentazione, che consenta di identificare modalità e canali nazionali e magari più performanti di quanto originariamente considerato.
Tradurre in modo efficace
Infine, un punto va speso sulla cosiddetta “traduzione” in lingua locale.
Coerentemente con quanto descritto sui canali di marketing e di vendita, anche l’adattamento dei propri messaggi chiave si scontrerà con la traduzione di concetti in lingue diverse, che a seconda del mercato in cui si opera, potrebbero perdere di efficacia.
Pensiamo per esempio al tone of voice aziendale: nei paesi anglosassoni il linguaggio utilizzato è informale e diretto; in Francia a seconda dei contesti diventa più formale; in Italia deve essere informale nella propria interfaccia, ma formale nelle comunicazioni personali del customer care con i propri clienti.
L’attenzione agli aspetti comunicativi è fondamentale in ambito fintech, perché i clienti devono sempre sentirsi a loro agio.
La consapevolezza delle differenze dei singoli mercati locali è fondamentale per poter pianificare, quindi, una efficace strategia di internazionalizzazione: porta benefici alla pianificazione strategica, aiuta a determinare budget realistici e porta solidità ai forecast proposti in sede di ricerca di capitali.
FINOM ha fatto di questa consapevolezza un’arma vincente, scegliendo di creare sin dal primo giorno una struttura e un prodotto in grado di adattarsi ai diversi contesti nazionali di business, scegliendo subito il mercato europeo come reale mercato di riferimento.
La valutazione del prodotto su cui concentrarsi e delle partnership da sviluppare è partita dall’identificazione di esigenze omogenee e diffuse su tutto il continente, per poi essere verificate su ogni singolo mercato, attraverso innumerevoli test e interviste con clienti potenziali e reali.
L’aspetto regolamentare è di fondamentale importanza, perché determina le scelte di sviluppo di nuove funzionalità e la roadmap per la loro creazione.
Un percorso interno che si costruisce tramite confronti costanti su come avere un prodotto compliant, ma che allo stesso tempo garantisca la migliore user experience per il cliente finale, in coerenza con il proprio brand e la propria mission.
A determinare l’efficacia o meno di questo percorso è la scelta d’investire in persone che sono esperte del singolo mercato nazionale e che possono quindi interagire direttamente con i potenziali clienti locali, arrivando a conclusioni che sarebbero fuori portata senza la conoscenza dei contesti culturali di riferimento.
Proprio per tutti questi aspetti, la gestione di una start-up fintech che vuole essere internazionale sin dal primo giorno resta una sfida stimolante, da affrontare quotidianamente con consapevolezza e determinazione.
Insomma: se state pensando di lanciare la vostra start-up, dedicate il giusto tempo e le giuste risorse a ideare una possibile espansione internazionale. Altrimenti rischiate di fare il salto affidandovi a conclusioni troppo semplicistiche e peccati di ottimismo, che potrebbero far naufragare il progetto.
di Antonio la Mura, Country Manager Italia di FINOM